Anch'io voglio rendere la mia testimonianza al papa, specialmente in questi giorni in cui molti, lo dicano o no, attendevano le sue dimissioni. E mi confesserò con tutta semplicità e candore. Ho ricordi di lui che conservo con molta gelosia, e perfino il dono di un incontro, che mi volevano impedire, in occasione di un anniversario dell'Università cattolica; quando mi manifestò tutto il suo affetto e la sua stima, tanto da sorprendere i presenti e perfino qualche vescovo. Non credo di essere uno di coloro «che fanno piangere il papa», come altri pensano: mi darei troppa importanza; tanto più che sarebbe un'importanza cui non tengo affatto.
Non ho mai pensato a una chiesa puramente carismatica: Dio ci liberi dai carismatici; ho sempre pensato (e creduto e servito, servito senza riconoscimenti e senza compensi di sorta) a una chiesa che è mistero di grazia e di miseria. Questo sì: anzi, della mia miseria prima che della miseria degli altri. Perciò le sono fedele, perché ho bisogno di essere continuamente sanato e liberato. Ecco, soprattutto liberato. Tutto quello che sono lo debbo a questa fede: credo, perciò sono libero.
Il mio problema non è il papa, ma l'apparato, il sistema. Altro è il sacramento, altro è l'organizzazione. Altro è la santa sede, altro la sede santa. E qui l'uomo non c'entra niente. O c'entra per quello che opera e per quello che usa o subisce dal sistema. E non si tratta di giudicare: che Dio mi faccia morire se ho da giudicare un uomo. Si tratta invece di amare e di servire la chiesa appunto, questa umanità che siamo noi stessi, che è Cristo, il quale si incarna nella nostra miseria e si fa invisibile nel gesto di carità, nel dono di noi a tutti gli uomini. Che se dovessi esprimere un giudizio sulla persona, di una cosa sento di dirgli grazie: di aver saputo resistere fin ora alla tentazione di pronunciare condanne e anatemi; tentazione invece che affiora continuamente dal cuore dell'apparato, e che si esprime e si concreta in politiche di pressioni e di ostracismi e di emarginazioni che fanno piangere molti, e che rendono sempre più difficile la fedeltà, e alimentano la rivolta di generazioni e la delusione di troppi. Cosicché nel caso, non è solo il papa che piange, ma sono in molti a piangere. E forse anche gli altri, cioè quelli dell'apparato, stanno male. Ma allora, che non sia il tempo di rispettarci tutti, almeno per il tanto che tutti soffriamo? Non è lo stesso Iddio che rende possibile con il suo spirito l’amore vicendevole e il rispetto delle scelte e delle tensioni che scaturiscono dall'individuale fedeltà alla medesima vocazione? E quando mai, nella chiesa, non ci sono state tensioni? Non è sempre stato così fin dal primo concilio di Gerusalemme, fin dallo scontro di Pietro e di Paolo? Non è questo, segno di vita?
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )