IL DRAMMA È RELIGIOSO

12/02/2024

Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario, e tanto meno la vita è accademia. La nostra, poi, questa che ci è toccata in sorte, pare che porti i segni di una maledizione. Intendo, di questo nostro modo di vivere, di queste furiose ideologie e feroci politiche. Da qui il grido della disperazione che sale dalla moltitudine. E allora non solo il poeta, ma chiunque è appena sensibile, è voce di quel grido; e se è appena sincera poesia, essa è gemito di tutti.
    Ma è giusto cantare solo i l negativo del mondo? E possibile che non ci sia ancora speranza? che non ci sia del bene e che l'umano non esista? Io ricordo il «tutto è grazia» di Bernanos e ci credo. E allora? Questo è appunto il fondo del discorso. La gloria del Cristo è la sua stessa morte. Bisogna che la teologia della croce non resti un capitolo di vita intimistica, per il devoto, essa è la vera teologia della storia: bisogna che diventi un fatto popolare, un fatto di coscienza universale. Non ci sono altre illuminazioni. Bisogna che l'uomo riconosca la sua sconfitta; gridare forte che questa non è una civiltà umana; che la tecnica e la stessa scienza sono, per ora, nella norma più estesa, le assi della cassa da morto dell'uomo. E anche la religione, per il tanto che ha accettato i l sistema, può finire con l'essere il coperchio della stessa bara. Allora non resta che puntare sulla resurrezione attraverso la morte del mondo. «Voi non siete del mondo», cioè i credenti non possono essere del sistema; essi sono nel sistema ma non del sistema. Ma è una posizione scomoda. Io posso dire di sperare più di voi; ma la mia speranza non è «umana»; anzi, essa nasce precisamente dalla cenere quotidiana di queste speranze, che appunto ci illudono e ci impediscono di vedere, con occhi di fede, il vero dramma dell'uomo. La nostra lotta «è contro i reggitori di queste tenebre». Ed è così che la poesia quando è vera poesia è un atto di fede, un atto di vera religione, e perciò è un fatto liberatore. La vera, la grande poesia, finisce sempre in preghiera: appunto, la vita stessa è un atto di fede.
    Queste mie cose, comunque siano, nascono in un contesto appunto di preghiera. Avevo tentato anni fa di confondere i miei pensieri con gli stessi salmi della Bibbia. Volevo addirittura pregare così, con la liturgia e con il popolo. E meditando precisamente sui salmi avevo composto «preghiere fra una guerra e l'altra». Ma non è possibile rompere secolari abitudini, non è facile liberarci dall'impersonale. E così la liturgia continua ad essere in dicotomia con la vita, e il culto rischia di andare per conto suo {finché dura), in divorzio con la fede. Siamo appunto divisi in noi stessi, vite senza sbocco e senza creatività. Eppure sono convinto che questa è la via per uscire dalla maledizione e dal deserto.
 
                                                                (da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988”)
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