mors et vita duello
Non portatemi fiori di serra
per la mia Pasqua: non possono
resistere all'incombente minaccia
di primavera; o azalee tristi
all'aria avvilente di queste città.
Portatemi il fiore dei deserti
non violato da mani d'uomo.
Tempo è di tornare alla casa antica
verso il silenzio e il regno verde.
Tempo è d'obliare lo squallore
di queste armate solitudini.
Ogni notte, da tempo, m'esilio
nel sogno: a navigare sul fiume
delle sepolte vite. Allora
quasi mani di angeli adornano
e stendono ghirlande ad arco
lungo una via che non ha nome;
e aceri e olmi s'inchinano
al tuo incedere nuziale.
Questa, è questa la prima
stagione dell'anno, avanti ancora
che ti concepisse tua madre.
Ogni vita trae radici dal sogno.
Oltre le parvenze e i fatti
avanti le opere e i giorni
divino è il seno da cui siamo nati,
(le donne non sono che madri seconde).
Riappare
una fattoria a rompere
la vasta campagna;
e un canto di fanciulle ti viene incontro
portato sulle mani bianche del vento...
Ma prima tu devi
attraversare la steppa
tra nitriti di cavalli bradi.
E sarà finalmente
annullata la solitudine
e non sentiremo più
la fatica d'esistere.
Già le tue mani nuove e la terra nuova
spandono profumi insieme
e l’"Arida" riprende a fiorire
al passo leggero del Dio
che torna alla sua fattoria.
Ogni viandante ivi troverà
riparo a bufera; e quasi fosse
sua casa siederà d'amico e signore
alla mensa: e nessuno
conterà i giorni all'amore.
Già i pioppi astati si accendono
candelieri sopra un altare la sera,
le querce sono vasi d'oro
e sangue sulla pianura.
Paura nessuna ti giunge ormai
dal lontano garrito delle fiere
nella notte. A ogni estate
Iddio passa uguale a un'aura
dolce sui capelli delle messi
al rapito splendore della luna,
ovvero come onda di mare, a giorno,
nel tremolio calmo della luce.
Il leone e la cerva e l'agnello
giocano al limite dello spazio inviolato,
più che i fanciulli agli orli
di murate città,
E il leopardo siede
sul meriggio insieme al capretto
il vitello con l'orso è tornato ai pascoli
il bambino di latte si trastulla
sopra la tana dell'aspide
alla regale ombra dei platani...
Le cose semplici erano il nostro paese
ma la sete si mutò in arsura,
libertà in ischerno
da quando innalzò le sue torri
Caino.
Ormai necessaria è la nuova discesa
in seno alla terra, e obliare
d'essere nati da donna
e pregare col figlio della steppa:
PADRE, dammi di che mangiare
dammi del latte, dammi dei figli,
dammi della carne, o Padre...
Di nuovo sentire. Signore,
che stai sotto le radici
e nelle punte vive dei semi
negli occhi delle magnolie in fiore
e respirarti ancora col vento.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988”)