«Viveva in quel tempo Iefte Galaadita, uomo valorosissimo e guerriero, nato da una donna di malavita e da Galaad. Or avendo avuto Galaad una moglie che gli aveva dato molti figli, questi, cresciuti in età, cacciarono Iefte dicendogli: "Tu non puoi essere erede nella casa di nostro padre, perché sei nato da un'altra madre". Ed egli, fuggito per star da loro lontano, abitò nella terra di Toh. Presso di lui si radunarono degli uomini miserabili e predoni che lo seguivano come loro capo. Or siccome in quei giorni i figli d'Ammon combattevano contro Israele e gli stavano addosso, gli anziani di Galaad andarono nella terra di Toh a prendere Iefte in loro aiuto, e gli dissero: "Vieni ad essere nostro capo e a combattere contro i figli d'Ammon"...»
«E Iefte fece un voto al Signore dicendo: "Se darai nelle mie mani i figli d'Ammon, il primo che uscirà dalla porta di casa mia e mi verrà incontro quando tornerò in pace con i figli d'Ammon, chiunque sia, l'offrirò in olocausto al Signore"...»
«Or mentre Iefte ritornava a casa sua in Masfa, ecco l'unica sua figlia (non aveva altri figli) venirgli incontro con timpani e danze. Appena l'ebbe veduta, esclamò stracciandosi le vesti: "Ah, mia figlia, tu mi hai ingannato e ti sei ingannata, perché io ho aperto la mia bocca al Signore e non potrò fare altrimenti". La figlia rispose: "Padre mio, se tu hai aperto la tua bocca al Signore, fammi quanto hai promesso, giacché la vendetta e la vittoria dei tuoi nemici ti è stata accordata". Poi aggiunse: "Mi sia acordata soltanto questa grazia: permetti che per due mesi io vada girando per i monti, a piangere la mia verginità con le mie compagne". E il padre le rispose: "Va pure". E la lasciò andare per due mesi. Ed essa, partita con le sue compagne e amiche, andò i piangere la sua verginità su per i monti. Passati poi due mesi, se ne tornò al padre suo, che le fece secondo il voto da lui emesso. Essa non aveva conosciuto uomo: ogni anno le figlie di Israele si radunano a piangere per quattro giorni la figlia di Iefte Galaadita.»
(Gdc 11, 1-6, 30-31, 34-40)
Notte mia senza un nome
senza un giaciglio!
Le case sono rapite in alto sonno.
Pure le meretrici ora
stanche riposano. La torre
comincia a impallidire ormai,
annuncia il giorno vuoto.
Gli uomini, vestiti a festa,
in danze sazie di amori
mi trascineranno all'altare.
Giunto è il tempo; ma verserò io
il mio sangue non fecondato
sulle pietre sulla mensa divina
sulle vesti sacre! Al sommo pontefice
macchierò il viso e le mani.
Questa non è la pena di un giorno,
una vita fatta inutile:
è profumo di fanciulla non amata.
Vendetta di una creazione
violata da ingiusto rito.
0 fiumi, almeno voi rispecchiate
la mia bellezza non vana
cui non fu dato riflettersi
negli occhi d'uomo.
Sicòmori e acacie, aiutatemi
piangete la mia verginità.
I monti non sono di pietra
il giorno non è un ricordo di sole:
io voglio ridonare voce e sensi
a cose morte. Stabilire il mio regno.
Io fiorirò sulla roccia
manto di muschio immortale.
Un rogo a me vergine, sotto l'alto
sole sulla piazza sacra!
Voi, timiami, ardete pel profondo
connubio: sposata sono al bosco
al campo alla montagna.
Il vento disperda la nostra cenere.
Rimorso non sento, o Notte,
del troppo amore alla terra.
Sulla testa ramata dei cervi
impigliate le mie inanellate chiome.
E quando fra sassi di fonte
si bagna la giovane luna,
piangetemi, uomini.
Reco sapore di morte alle labbra:
nomi e volti di amici
che in segreto amai: di uno
mi piacevan le grandi mani,
di altri l'armoniosa bocca
o gli occhi ardenti e la fronte.
Tutti li assumo ormai e compongo,
al primo tagliando le mani
al secondo le dolci labbra
al terzo gli occhi di fiamma cavo.
Con le stesse mie mani distruggo
la figura d'uomo impossibile.
Tutti morti, caduti dal cuore.
*
Il giorno ora tra i rami si lava
dalle brine della notte,
ma le pietre e gli sterpi sono
da tempo desti alla mia voce.
Insieme serberemo il ricordo
di questa minacciosa ferita
e il suo sanguinare perenne.
(Le amiche ogni notte − non viste −
uscivano dai loro recessi a piangere.
Di giorno invece ognuna era
dietro le piante a fuggire
la persecuzione della luce.
Ma la notte e i monti e le acque
una sola eco, ancora, interminabile.)
*
Era sulla mensa nuda all'altare.
Profumata, bellissima. Intorno
tutta la terra rapita;
il sacerdote (occhi e volto
dal suo sangue macchiati!) e il popolo
prostrato e senza respiro.
Quando in mezzo al silenzio
dagli ulivi gracchiarono i corvi,,
Ognuno udì da se stesso uscire quell'eco
e la carne fu viva per improvviso risveglio.
Poi alti, quei corvi, eran macchie nel cielo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988”)