NON PIÙ UN UOMO

19/05/2022

Ma ora che sei morta, o madre,
io so le volte che mi hai generato.
In silenzio, non vista d'alcuno.
Quando nato appena
a farti male iniziai, a rompere
con sassi il giuoco sulla piazza
tu mi rimettevi dentro il seno
a concepirmi ancora.
Bello mi volevi, uguale
al figlio di Maria.
 
E quando dalla casa dura vicenda
e la tavola vuota di pane
spingeva i fratelli ad andare,
o la morte li mieteva indifesi
per povertà inaudita,
nuovi chiodi noi tutti
e Iddio insieme conficcavamo
alle tue mani sì che esile ormai
da tanti anni pendevi ai nostri occhi.
Tu per questo non piangevi.
Un pianto invece ti straziava
quando il freddo e la fame
ci rendeva astiosi e con canne
di granturco e vincastri di palude
ci dovevi scaldare la poca minestra
e la casa nera di fuliggine:
una casa senza vetri aperta alle nevi
e alla bora che galoppava dal mare.
 
Per questo tu piangevi,
se la sera non dicevamo le preghiere
con tutti i morti del paese
che allora tornavano per l'orto
e circondavano il focolare e la mensa
o sedevamo alle scale. (Quanti
morti, generazioni intere,
e tutti ancora emigranti
o soldati caduti chissà dove,
per una terra che li ha sempre respinti
e solo allora tornavano in pace;
oh quanti di loro hanno  invaso
la mia infanzia, da riconoscerli
ancora, pure se antichi,
e la mia vita farsi già in quegli anni
un carico miracoloso di secoli!)
Allora io ultimo rimasto a casa
dovevo riassumerli
quando mi portavi sotto l’altare
della Consolazione nella chiesa vuota.
 
Così, o madre, non più un uomo hai partorito.
Ormai non solo i tuoi figli sono
ma tutto il popolo.
E tu vestita a festa
e sempre all'ultimo banco
− io da lassù ti vedo quando
allargo sulla gente le braccia, −
tu ancora continui a generarmi
in perfetta verginità e pianto.
 
                       (da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988”)
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