A Gianfranco Ravasi
e agli amici
... Sono, avanti a tutti, gli amici della prima ora, quelli de «L'Uomo», nel cui ricordo ho sempre cercato di «far fronte», come diceva Bemanos nel Diario di un curato di campagna. Sono gli amici del tempo della resistenza, cui fanno grappolo gli altri, i pochi che ancora resistono, cui ho dedicato da sempre i frutti della mia più cara fatica. E non è a caso che mi riferisco a loro — nella cui corona di nomi ora c'è anche il tuo —; non è per gioco che pensando a loro ho scritto anche recentemente: Torniamo, amici, ai giorni del rischio. Invito che sento tuttora pienamente vero e urgente.
A te dunque, Gianfranco, e a questi amici più cari. Di tutti voi ho bisogno come un mendicante ha bisogno di pane e di pietà. Io so quanto godete che il sodalizio continui a fiorire come un giardino cintato in queste spoglie città. È un modo di ristorarci nella traversata del deserto, e rincuorarci nel portare a termine l'esodo che deve sempre avverarsi: l'esodo che alla fine più conta, quello — almeno! — della propria salvezza.
A tanto, e cioè a dare qualche piccolo segno che si può ancora sperare, non penso estranei o del tutto inutili, i motivi di questi miei canti, anche se — a conti fatti — la delusione personale è grande. Pur convinto che il cantare è già una grazia.
Si tratta appena di una silloge dei miei sussurri e grida spirituali, avanti il silenzio finale (amorosamente atteso, comunque). È una silloge che devo particolarmente a te, per varie ragioni: a causa della parentela nata fra noi per via dei salmi; e poi per la tua mirabile guida in mezzo alle vigne e ai campi del Cantico dei Cantici, e altro.
D.M.T.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988”)